Disturbi specifici di apprendimento: le domande dei bambini - Studio di Mediazione familiare, pedagogia e orientamento

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Bambine che studiano
I disturbi specifici dell'apprendimento: le domande dei bambini
di Maurizio Forzoni
                
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Maurizio Forzoni
Oggi voglio parlare di tali questioni che, come sappiamo, sono spesso all'ordine del giorno in ambito scolastico, sociale e familiare. In questo mio articolo, non starò a fare gli elenchi di quali siano i disturbi specifici di apprendimento,  perché l'amico/a lettore/rice troverà senz'altro una sovrabbondanza di termini, di categorie, sintomi e diagnostiche sia in internet (la rete delle reti), sia in un qualche manuale, primo tra tutti il così denominato DSM, nelle sue varie versioni rivedute, ampliate/amplificate, aggiornate. Per cui rimando chiunque interessato alle nosografie,  a prendere visione del suindicato materiale e dei dibattiti (scientifici) in corso.

Ciò su cui oggi vorrei lavorare assieme a voi, con  chi ci sta ed è interessato, stimolato e stimolante, è sul reale del soggetto che, ad un certo punto della propria vita, carriera scolastica e non solo, manifesta un sintomo, un disagio, una domanda, una ricerca d'aiuto o anche una protesta. Il “disturbo” è sempre susseguente alla domanda, e diviene spesso un attributo dato dall'altro istituzionale/sociale/familiare che potrebbe non volerne sapere (eppur domanda). Nella parola “disturbo”,  c'è sempre da chiedersi – e chi non lo fa è invitato a farlo, se vuole –  “chi disturba chi?” e “chi è il disturbante e chi il disturbato, o viceversa?” Non è, a mio avviso, questione da poco. E' il bambino che disturba,  mettendo sotto-sopra le case o le famiglie o la scuola, oppure, in un certo senso, è disturbato e, non riuscendo a dirlo a parole, lo fa come può? Si difende con gli strumenti di cui dispone, se non altro per imitazione?

Ciò di cui siamo sicuri è che il bambino pensa, anche quando manifesta un sintomo (esattamente come ciascuno di noi. Salvo poi non riconoscersi nei nostri pensieri, rinnegarli, rimuoverli). Personalmente non credo a tutte le teorie destinali legate alle disfunzioni neurologiche, funzionali, strutturali che dir si voglia. Non ci credo perché non corrispondono mai ad un reale. Quando un bambino viene presso il mio studio (personalmente o tramite i propri genitori) – lo faccio sempre, è prassi consolidata – chiedo le diagnosi, anche quelle cosiddette strumentali. Nel 95% dei casi sono tutte negative. Gli strumenti non rilevano mai, nella loro oggettività, malformazioni congenite, problemi neurologici. Ciò è un fatto. E dei fatti, soprattutto coloro che hanno fede nella scienza e nel suo sapere assoluto (io non sono tra questi), ne dovrebbero tenere conto. Perché allora non se ne tiene conto? Perché spesso si continua a somministrare test diagnostici e cure ortopediche e rettificanti del disturbo, sino ad arrivare, in molti casi, all'uso della chimica e dello psicofarmaco? Non darò al lettore una risposta, ma una domanda. Le domande sono sempre un'offerta, perché ciascuno può metterci del proprio e lavorarci. Le risposte chiudono il gioco, il cerchio. Un po' come il gioco è fatto del discorso universitario o della roulette, se preferiamo. “Les jeux sont faits, rien ne va plus”. E' una formula destinale, non se ne esce, non lascia scampo o rilancio.


Ogni bambino/a, ciascun soggetto è diverso dall'altro, è unico/a (perché allora si pretende che tutti imparino allo stesso modo e  con gli stessi tempi?) Sarebbe sicuramente pleonastico dirlo e rilevarlo, se non fossimo consapevoli di vivere in una civiltà che, invece, tende a catalogare, omologare, generalizzare, giudicare per stereotipi, pregiudizi e congetture, senza reale conoscenza dell'altro.

La scuola, va detto, non è l'unico contesto formativo ed educativo con cui il soggetto si confronta e/o spesso si conforma. Possiamo sicuramente ammetterlo che non è (e non è mai stata) nemmeno l'ente maggiormente significativo e importante nelle scelte, nel lavoro e nell'operare umano. Va altresì detto che, ad oggi, vi è purtroppo ancora molta distanza tra la scuola e la vita pratica, reale, sociale. Sarebbe sicuramente auspicabile che questa si spostasse sempre più a riconoscere il ruolo e l'importanza di tutti gli altri ambienti e fonti dal quale il bambino  e ciascuno di noi apprende, attinge, si forma. Invece, in una sorta di velleità superegoica, si finisce spesso per ritenere che la scuola abbia un ruolo primigenio, unico,  superiore (addirittura assoluto) nella formazione dell'individuo. Ciascuno di noi, se pensa alla propria storia formativa, può sicuramente smentire tale assioma, riconoscendo che la scuola è stata una delle tante esperienze formative nella propria vita, ma spesso nemmeno la più importante. Molti potrebbero essere tentati nel giudicare le mie parole un affronto, un delitto di "lesa maestà", mentre, invece, vanno esattamente dalla parte opposta. Sono parole che, da una parte,  ridanno sovranità al soggetto, al bambino e, dall'altra,  dignità alla formazione scolastica, rimettendola non già nell'obbligatorietà, nell'Assoluto,  ma nella possibilità di scelta e incontro con altre realtà. Non s'impara per forza, ma per piacere, per gusto, per desiderio. Certo. Si può anche imparare se costretti, un po' come quando si costringe un soggetto a mangiare, obbligandolo, ma, in tali casi, la soddisfazione ne esce menomata, deprivata,  sacrificata (e i disturbi alimentari o di apprendimento,  sono dietro l'angolo).

Studiare, imparare, apprendere è un lavoro di pensiero, ed è un lavoro nel senso giuridico-economico del termine, con tanto di relazioni a profitto o in perdita.  Quando un bambino manifesta un disturbo, o un rifiuto scolastico, o qualche altra forma di difficoltà, è la relazione che va posta a giudizio. Relazione con uno o più familiari, con i compagni, i coetanei,  gli insegnanti, una materia piuttosto che un'altra,  se stesso, con i metodi o le possibilità d'insegnamento e di apprendimento, e così via. Non si può prescindere, nella valutazione di ciò che sta vivendo il soggetto in quel preciso momento, dalla propria storia formativa, educativa ed orientativa. Passare subito e sempre alla diagnosi è – come si dice –  un tentativo di chiudere il discorso, di affidare al Grande Altro (GA), che sia lo Stato o l'esperto diagnostico,  questioni che invece riguardano il soggetto e coloro con cui si confronta e relaziona. Va altresì rilevato che spesso queste diagnosi penalizzano il bambino, finiscono per creare un'etichetta da cui spesso ne esce con grande sforzo, sacrificio,  quando non lo segna per l'intera vita. Ho conosciuto ragazzi oramai adolescenti e anche maggiorenni con gravi difficoltà che non sono più usciti dalla diagnosi e spesso sono finiti o per diventare dipendenti oppure per essere in guerra con il mondo e, forse, con  ragione. Nessuno, infatti, ha provato mai a trovare per loro un'alternativa, una possibilità di ascolto delle loro domande, desideri o difficoltà. Nessuno a provato a stimolarne il desiderio, a metterlo alla prova.

Mettersi in discussione, lo dico spesso, non è un'offesa, ma un privilegio. Un dono che un soggetto si concede. E' un atto d'amore.



Arezzo, lì  06/02/2020


© Dott. Maurizio Forzoni               

Maurizio Forzoni (info@maurizioforzoni.it/347.8392440), pedagogista, mediatore familiare e orientatore esistenziale, attualmente svolge attività di pedagogista,  orientamento esistenziale e formativo nelle relazioni d'aiuto in ambito familiare, soggettivo, scolastico, all'interno del Centro Formativo, didattico-pedagogico, di orientamento e ricerca UniSocrates di Arezzo, città nella quale vive. E'  iscritto al Registro Nazionale Orientatori presso l'Associazione Nazionale Orientatori – Roma, ed è formatore e supervisore autorizzato Eipass – European Informatics Passport.
(C) 2022 Dott. Maurizio Forzoni

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